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CHIESA DI SAN CARLO BORROMEO A ROMA


LUOGO Roma, Italia
ANNO 2005 – 2010
TEMA Architettura, Luoghi sacri, Chiesa
STATO Costruito
PROGETTISTI Antonio Monestiroli, Tomaso Monestiroli, Massimo Ferrari
COLLABORATORI  Marco Alesi, Claudia Tinazzi


La chiesa è il luogo in cui una collettività partecipa a un rito che la accomuna. Questo concetto di comunione è il tema su cui si sono impegnati gli architetti di tutti i tempi che si sono applicati alla ricerca di una forma evocativa in tal senso.
Ciò che distingue gli architetti moderni da quelli del passato è la perdita di ogni corrispondenza simbolica fra forma e significato, da cui la grande difficoltà, per l’architettura moderna, di rappresentare il valore sacro di un tale edificio. Tuttavia se non ci è possibile credere nel simbolismo di forme come la croce latina, la cupola ecc. che se adottate oggi si mostrano retoriche, è pur sempre necessario porsi l’obiettivo della rappresentazione del senso dell’edificio, senza rinunciare a una forma monumentale.

«Per monumentalità si intende l’esatta corrispondenza di una forma al significato di ciò che costruisce.» Un esempio di monumentalità chiaro e prezioso è la chiesa del Convento de La Tourette di Le Corbusier. Un esempio di esatta corrispondenza tra forma e significato, un luogo fortemente evocativo, che nell’unità dello spazio, attraverso i suoi rapporti proporzionali, rappresenta il suo senso più generale, il suo carattere. Questa chiesa è una delle pochissime che non si pone il tema dello straordinario, che rifiuta ogni tentativo, alla fine sempre individualistico, di uscire dal comune, cercando di interpretare il sacro attraverso forme inconsuete. La bellezza di questo esempio consiste nella semplicità delle forme, nella sapienza con cui Le Corbusier sa riconoscere il sacro nel quotidiano e sa rappresentarlo attraverso un semplice sistema di rapporti. Al centro di un quartiere relativamente nuovo, a Tor Pagnotta, nella periferia di Roma, c’era un gran mucchio di terra e di detriti che si era formato con gli scavi e i materiali di risulta dei cantieri delle costruzioni intorno. Su questo mucchio spianato e adattato allo scopo, giocavano a calcio i ragazzi del quartiere, usando uno dei pochi spazi liberi da costruzioni, su cui le abitazioni si affacciano. Spazi liberi ce ne erano altri nel quartiere, delle specie di piazze che però erano e sono ancora occupate dalle rampe e dalle aerazioni dei garage sotterranei, oltre che dai numerosi parcheggi a raso. Insomma l’area dove abbiamo costruito la chiesa era l’unica libera e l’unica usata per uno scopo nobile, lo scopo per cui dovrebbero essere usati tutti gli spazi liberi dei quartieri, quello del luogo di incontro, un luogo in cui viene svolta una attività che accomuna chi la svolge. Nel luogo della nostra chiesa questa attività veniva svolta dai ragazzi che giocavano a calcio sul mucchio di terra. Partiamo da questo punto perché da qui, da un fatto del tutto materiale come quel mucchio di terra, è iniziata la riflessione sul progetto della chiesa. Guardando quei ragazzi giocare a una quota più alta di 3 o 4 metri dalla strada, siamo rimasti colpiti dalla posizione dominante del campo da gioco e abbiamo pensato di mantenere quella quota, di non portare via quei detriti ma anzi di compattarli, consolidarli, spianarli e di costruirvi sopra la chiesa di San Carlo Borromeo. Quel mucchio di terra doveva diventare il basamento di un edificio costruito anch’esso con la terra, con blocchi di tufo cavato nei dintorni.
Questa decisione ci ha entusiasmati subito, ci ha dato una chiave di interpretazione del tema della chiesa a partire dalla sua materialità. Una materialità che si oppone a qualsiasi tentata sublimazione, a qualsiasi tentativo di trasferire il suo senso altrove, in un luogo che non c’è. Noi crediamo che la chiesa debba essere fondata nella terra, che l’altare stesso debba «emergere dalla terra» e che le sue forme debbano saper esprimere questo suo «appartenere alla terra». Stabilendo la quota della chiesa e del sagrato a più quattro metri abbiamo creato le condizioni «di dover raggiungere quella quota»Di dover definire un percorso che dal quartiere raggiungesse la quota del sagrato. Abbiamo escluso l’idea di una scalinata, abbiamo pensato invece a un sentiero, a un modo di salire lento e continuo, adatto a tutti. Anche questa è stata una scelta basata su una condizione materiale del luogo sopraelevato e delle persone che devono raggiungerlo. Sappiamo che il percorso, il movimento, fa parte della funzione liturgica. Il rito cristiano prevede una partenza, un percorso, una meta da raggiungere. Il percorso che raggiunge la chiesa e la sua parte più sacra, l’altare, è dunque parte integrante del rito.

La chiesa è un’aula pressoché quadrata, delimitata da quattro muri ciechi. Muri rivestiti con lastre di tufo all’esterno e all’interno della chiesa così che sembri costruita in blocchi. Un recinto di tufo aperto sul lato opposto all’altare con un grande portale scandito in tre parti da due setti murari perpendicolari al recinto che vogliono testimoniare la perenne apertura del recinto stesso. In questo modo abbiamo pensato si potesse dare espressività al tema dell’accoglienza. L’assemblea si riconosce come comunità attraverso l’unità del luogo in cui si riunisce e il motivo della sua presenza in quel luogo. La presenza dell’altare, una grande e pesante lastra di marmo quadrata appoggiata su un blocco dello stesso marmo, unifica l’assemblea, la trasforma in una comunità che trova in quella pietra il motivo della sua presenza in quel luogo. Il recinto è attraversato da un percorso che va diritto dal portale di ingresso all’altare. Il percorso attraversa i banchi dell’assemblea tutti rivolti all’altare e disposti in modo da consentire uno sguardo laterale fra singoli convenuti. Abbiamo escluso ogni disposizione dei banchi che faccia prevalere il rapporto visivo fra i partecipanti proprio perché crediamo che quel che unisce l’assemblea non sia la presenza fisica dei suoi membri «ma la condivisione del motivo della loro presenza in quel luogo».Il recinto quadrato e il rapporto frontale fra l’assemblea e l’altare ci è sembrato la forma più idonea a questo fine. L’altare dunque è la meta di un lungo percorso che parte dalla rampa di accesso al sagrato, lo attraversa per raggiungere il portale di ingresso della chiesa attraverso il quale, in fondo all’unica e larga navata, compare l’altare. Il luogo recintato è coperto da un tetto piano che mette in penombra il luogo dell’assemblea appena rischiarato sul perimetro da una stretta lama di luce radente sull’asperità del muro. La luce, quella più forte, forte a tutte le ore del giorno, arriva sull’altare sia in modo diretto, da un alto lucernario zenitale, sia riflettendosi sulle pareti interne di una grande torre alta sopra la navata dell’assemblea. La torre, di grandi dimensioni, contiene l’altare e tutto il presbiterio aperto sull’aula. Le sue pareti interne sono bianche, rifinite in marmorino lucido e riflettono una luce forte che rischiara il presbiterio fino al calare del sole. La torre ha diverse funzioni: la prima di essere una specie di macchina della luce sopra l’altare; la seconda, non meno importante, di essere un elemento di identificazione della chiesa e di forte richiamo da ogni luogo del quartiere. In realtà la torre è l’ultimo tratto del percorso che dopo aver raggiunto l’altare sale in verticale, verso il cielo. In fondo la vera artefice della forma del luogo è la luce e la luce ci riporta alla materia, dà forma alla materia che sotto la luce rivela la sua identità. Ogni volta che passiamo davanti a quella piccola acropoli dove sorge la chiesa di San Carlo Borromeo a Roma pensiamo che l’altare di marmo prezioso poggia su un primitivo mucchio di detriti che via via abbiamo trasformato in pietre di tufo e poi ancora in quella splendente superficie all’interno della torre che conduce la luce proprio sull’altare. A partire dalla materia, attraverso la funzione liturgica, abbiamo dato una forma al luogo, una forma che speriamo sappia rivelarne il significato.



Foto di Marco Introini e Bernardo Corsetti


IN

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